La botte piena… e la moglie?
Da anni in Italia si hanno notizie di manifestazioni di piazza che vedono coinvolti studenti, ricercatori, professori e compagnie cantanti attorno (contorni di politici di piccolo cabotaggio e furbi che speculano sulla disgrazia), tutti alla ricerca di fondi pubblici per l’istruzione e la ricerca.
Il concetto, di per sè, più che giusto potrei dire essere sacrosanto, nella visione evoluzionistica della società moderna che, dal movimento futurista in poi, ha nella ricerca scientifica e technologica il suo motore vitale.
E quindi, se condivido il concetto di base, perché dovrei avere qualcosa a che ridire sulle manifestazioni di cui leggo sui giornali o vedo in televisione? Semplice a dirsi: perché non mi ritengo un ipocrita, come quelli che sollevano cartelli e rilasciano interviste attaccando il sistema e gli scarsi fondi, che li obbligano ad essere precari ad vitam.
Il motivo dell’ipocrisia è originato dalla miopia con la quale viene osservato il principio della ricerca, secondo la visione conservatrice della burocrazia statalista (tendenzialmente appartenente al conservatorismo di sinistra, ma radicata anche in larghe frange della destra progressista), la quale vorrebbe uno Stato munifico di risorse per ricerche pubbliche non finalizzate ad alcun risultato di rilevanza economica.
Sebbene sia un enunciato ricco di moralismo etico, perfetto nel mondo immaginario d’Utòpia, esso non si applica né alla natura umana, né alla realtà delle cose (quanto meno, nel mondo del possibile e reale).
Mi sorprendo ogni volta nell’osservare i [giovani] cervelli in fuga da un’Italia disastrata, priva di possibilità e sbocchi professionali, rilasciare interviste criticando l’assenza di fondi, lo stato dei loro contratti precari presso le università e l’avvilimento nel dovere avere a che fare con il contesto dei potentati e baronati, felici di andare a lavorare all’estero (a ragione, secondo me).
La sorpresa non è data tanto dalle dure accuse nei confronti d’un sistema fatiscente, che è sotto gli occhi di tutti, quanto per la pretesa che tale sistema migliori, rimanendo tale.
Infatti, questi trasfughi (come i colleghi contestatori rimasti entro i confini della Patria natìa) avrebbero voluto finanziamenti, strumenti e anche soltanto un contratto di lavoro stabile, da parte di istituzioni pubbliche, contestando duramente l’apporto del privato nella soluzione della situazione attuale, che snaturerebbe la ricerca pura, fine a se stessa, per riportarla a logiche di mercato e valutazioni di tipo finanziario/economico, laddove, invece, accettano di entrare in strutture universitarie o centri di ricerca privati, che operano da soggetti economici.
Quando si contesta, infatti, la scarsità di mezzi italiani, portando a termine di paragone la ricchezza di Paesi quali gli Stati Uniti, la Francia o la Germania, si dimentica [volutamente] di ricordare che le istituzioni universitarie e di ricerca sono enti privatistici, che ricevono investimenti da multinazionali a fronte della produzione di risultati tangibili e riutilizzabili.
Massachussets Institute of Technology (MIT), Berkely, Stanford, Columbia, Brown (per rimanere al caso degli Stati Uniti; potrei citare ESC Lille, Sorbone, Sophia-Antipolis in Francia, ad esempio) non sono certo enti di beneficienza che elargiscono fondi in perdita per il gusto della ricerca: investono in ventures private (si pensi all’univeristà di Stanford, azionista di Google e proprietaria, prima dell’acquisizione da parte di Oracle, della SUN Microsystems), ottenendo dividendi da reinvestire nella ricerca di prodotti da rilanciare sul mercato.
La ricerca di Stato non ha mai portato a nulla, concreto (leggi: rivalutabile economicamente) o meno: nel momento, però, in cui il modello privatistico viene suggerito per riequilibrare il divario con gli altri Paesi, subito barricate, bottiglie moltov contro la polizia, occupazioni e tutto il resto del repertorio sessantottino italiano.
Adulanza
Ieri (venticinque gennaio duemiladieci) è capitato che leggessi un articolo su Il Foglio, a firma di Camillo Langone, molto acre e irriverente, tutto votato all’attacco di Angelo Mellone, noto giornalista, opinionista e recentemente presentatore, proveniente, se non più appartenente, all’area riformista delle destra italiana, reo di essersi prostrato ai piedi del principe Fini, barattando la propria onestà intellettuale in cambio di un futuro posto da sottosegretario, consigliere d’amministrazione RAI, o simil cosa.
Devo dire che conosco Angelo, seppur virtualmente (Facebook è una grande risorsa per tutti coloro i quali vogliono poter dire “lo conosco!”), da qualche tempo, e lo leggo da molto più tempo (ad oggi potrei dire una diecina d’anni, quando pochi sapevano chi fosse), ritenendolo un valido esponente della destra culturale italiana: contornati dai vari De Angelis di turno, spaccateste e nostalgici dell’era post-fascista (altresì detta neo-nazista) della Repubblica di Salò, Mellone mi è subito apparso illuminante e moderno, anche perché, dopo anni di ideologi di destra che a malapena sapevano coniugare il verbo essere in un corretto italiano.
Non appartengo alla schiatta di coloro i quali ragionano secondo il principio post hoc ergo propter hoc (“dopo di ciò quindi a causa di ciò”), che nel caso in questione vorrebbe che le accuse di Langone siano vere, riducendo qualunque azione al suo effetto; ciò non di meno ho notato negli ultimi tempi un ammorbidimento nelle posizioni propagandate da Angelo Mellone (per dire di colui di cui si sta trattando: la stessa critic la muovo anche a Filippo Rossi, Franco Bechis e altri), speculando il comportamento del leader, ormai caduto in disgrazia presso i suoi, della destra italiana (Fini, ndr), in contraddizione con molte delle posizioni fondamentali che contraddistinguono le ideologie classiche (es. aborto, eutanasia, famiglia, cittadinanza).
Noto sempre di più e con sempre maggior angoscia un fenomeno adulatorio nei confronti del potente impossessarsi della destra italiana: seppur un mal-costume tipico del nostro popolo (da uomo del sud posso testimoniarlo maggiormente), per decenni l’ambiente cultural-politico della Destra ne era rimasto immune, contraddicendo il principio del conservatorismo ossequiante, elevandoci alla stregua di gente sempre in lotta col potere, impermeabili ad ogni corruzione morale o pecuniaria (non per niente, quello che allora era il Movimento Sociale Italiano uscì dalla fase di Tangentopoli come unico non toccato da alcuna inchiesta).
L’avvento di Silvio Berlusconi sulla scena politica, vieppiù nelle fila del centro-destra, ha galvanizzato molti (me compreso, da principio), facendo ritenere che l’avvento d’un nuovo messia, dopo il Duce, fosse ormai giunto e che saremmo stati tutti condotti alla vittoria contro i demoni del comunismo e la follia delle conseguenze che esso avrebbe apportato alla nostra Patria.
Ma questa venuta e gli anni che ne sono seguito hanno sconvolto grandemente il nostro concetto di purezza intellettuale: uomo pragrmatico (ghe pensi mi) e di scarsa cultura personale, il Cav. non ha mai amato, come molti imprenditori del suo rango, la presenza di chiunque non sia d’accordo con le sue scelte, il quale viene immediatamente emarginato per non apportare nocumento all’immagine del leader; nel tempo, tale prassi ha condotto ell’emersione di mediocri uomini, privi di ogni morale o ideologia (si parla oggi di politica post-ideologica per definirne il comportamento), che infoltiscono le schiere adulanti personaggi, aspiranti nella benevolenza del signore del partito.
Corruptio optimi pessima
Così l’appiattimento di ogni discussione politica ha annichilito ogni elaborazione, facendo ormai ritenere gli opinionisti e i giornalisti dei semplici esecutori di comandi superiori, assimilati a compiacenti divulgatori del pensiero dominante: non se ne abbia a male, quindi, Angelo Mellone se quell’iconoclasta di Langone, finché ancora non omologato a voce di partito, lo attacchi tal duramente (magari facendo affidamento solamente sulla realtà da lui percepita): le critiche fanno male e sono irritanti, vieppiù se avvertite come ingiuste, ma aiutano a vedere ciò che non riusciamo più a notare.
Sovvertire il sistema
Erodoto incise nella storiografia una codifica dei sistemi di governo e delle relative degenerazioni: secondo tali principi, Roma, nel periodo di massimo splendore pre-Augusteo, incarnava tutti e tre i sistemi virtuosi da egli descritti (i consoli, quali rex, il senato oligarchico e i tribuni espressioni della democrazia popolare).
Seguendo tali principi, per millenni (salvo sporadici e, nel computo generale, poco incisivi momenti di pausa) il mondo Occidentale si è costituito e formato, sviluppando diversi e sempre nuovi sistemi di governo e gestione delle fortune di popoli e Stati, nel mantenimento di un potere superiore su gran parte del mondo conosciuto.
In tal senso, l’Europa ha conosciuto vari periodi di colonizzazione culturale, militare, religiosa ed economica, dal tempo dell’Impero Romano, passando per i Conquistadores spagnoli, sino alle ere napoleonica, vittoriana e americana (in quanto estensione social-culturale).
All’interno di tale alveo molteplici sviluppi sociali sono avvenuti, che hanno migliorato le esistenze delle generazioni che li hanno elaborati e alimentati, lasciandoli in eredità a quelle successive, monito di un’evoluzione da continuare e conservare.
I giorni che stiamo vivendo, però, drammaticamente ci dicono che tale processo evolutivo sta, lentamente, gradualmente, ma inesorabilmente, per sovvertirsi; anzi ha iniziato da qualche tempo a invertire il senso di marcia.
Forti della vittoria su sistemi totalitari anti-democratici, quali quelli nazista, fascista e comunista (l’ultimo a morire, più per stanchezza e vecchiaia, che per mano di alcuno), abbiamo beatamente appoggiato le nostre ricche natiche su una poltrona IKEA, davanti al televisore al plasma d’ultima generazione, ignari, inconsapevoli o non curanti di ciò che stava avvenendo intorno, avidi di altri beni e ritrovati tecnologici al minor prezzo possibile.
L’avidità estrema, la competizione e la furia, create da un sistema economico, quello statunitense, povero di storia e incurante del futuro, hanno stressato sempre più la richiesta di beni e servizi, nel più dei casi generando la necessità di essi, laddove non ve n’era nemmeno la necessità.
In molti bollarono il libro di Naomi Klein (No Logo) come l’opera di una comunista (o peggio, anarchica) utopista, da evitare come la peste, buono solo per alimentare le teorie complottiste internazionali: io stesso, dopo averlo letto, l’ho regalato a un mio amico, non ritenendolo degno di far parte della mia biblioteca.
A molti anni di distanza, con molti di essi sulle spalle e l’esperienza che comportano, posso dire quanto fossero reali le preoccupazioni e gli allarmi lanciati circa un lavaggio del cervello direzionato al consumo di prodotti inutili e superflui.
Eppure, questa smania consumistica ha condotto, nell’arco d’un quindicennio scarso, alla totale disumanizzazione del prodotto e del consumatore, alla ricerca del minor prezzo di vendita possibile, perché le masse potessero permettersi ciò che i signori fino a pochi anni prima si eran permessi (spingendo a loro volta i signori a ricercare nuovi lidi non contaminati dalle masse).
Ciò ha causato il fenomeno dell’outsourcing: un termine un tempo ignoto ai più e oggi tristemente noto, che implica l’esternalizzazione della produzione a sub-appaltatori con mano d’opera a costi inferiori.
Istituto americano quello dell’outsourcing: sicuri di poter controllare popoli poveri, ignoranti e assoggettati da governi autoritari, con i quali le multinazionali stringevano convenienti affari, hanno creato un nuovo modello economico, che pian piano è arrivato a fagocitare l’essere che lo aveva generato.
In questo senso si deve intendere la poderosa ascesa della Cina, ormai seconda economia mondiale: distruggendo ogni record di crescita fin qui, è ascesa follemente ai vertici del mondo, acquisendo di conseguenza un potere politico mai posseduto in passato; ciò grazie all’assenza di regole circa il trattamento equo dei lavoratori, la presenza di un unico sindacato compiacente, la vacuità delle leggi sulla concorrenza industriale e lo spropositato numero di abitanti miserabili, pronti a lavorare per una paga da fame anche quattordici ore al giorno.
Dall’altro lato del ring, un Occidente stanco, rilassato, colpito duro dal suo stesso modello economico collassato, il quale risponde delegando agli Stati Uniti d’America la guida, che essi mal riescono a gestire, offuscati dalle necessità dell’oggi, più che rischiarati dalle prospettive del domani.
L’elezione di Barack Obama è stato un segnale al mondo di grande impatto, anche se nel verso contrario a quello sperato da tanti benpensanti, buonisti e liberatori di schiavi che si nascondono nei salotti dei signori. Un’uomo nuovo, senza alcuna esperienza concreta e senza appoggi politici saldi, si sta rivelando un fuscello che facilmente viene scosso dal soffio del vento cinese, incassando rifiuti su rifiuti (dalla richiesta di un aumento del valore dello Yuan, alla politiche sul clima, alla preservazione del diritto industriale), ergendosi a simbolo di un mondo in declino che ha scambiato il bene della democrazia con una spilletta colorata.
Stiamo assistendo quindi al sovvertimento di un sistema social-culturale perpetrato da millenni e che ci ha condotti dove siamo adesso: la democrazia lascia spazio alla dittatura economica.
L’Occidente ha infatti due sole alternative per sopravvivere: rinchiudersi in se stesso, costringendo il blocco BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) a far lo stesso, ovvero adottare il modello anti-democratico, che sta vincendo sul nostro, alla ricerca di prezzi di produzione sempre inferiori.
Termini al termine (finalmente)
Quando si viaggia sull’autostrada [regionale] che va da Palermo a Messina, poco dopo l’uscita di Villabate, s’iniziano a scorgere delle ciminiere bianche e rosse a strisce orizontali, che vanno definendosi man mano che vi si avvicina: sin da quando ero un bambino, e con la famiglia andavamo in villeggiatura in una casa sul mare vicino Cefalù, le ho osservate dal finestrino della macchina, incuriosito e talvolta affascinato dalla possenza e dal singolare aspetto.
Quelle ciminiere, scoprii in età più matura, erano in realtà l’unico segno dell’industrializzazione nell’occidente Siciliano: si ergono ancora (e per poco inoltre) nel mezzo di un deserto di capannoni industriali cadenti, vuoti e scheeletrici, che muovono sulle labbra un sorriso isterico quando si legge sulla strada l’indicazione “Zona Industriale”, con riferimento all’area in questione.
Per decenni l’attività principale del territorio circostante è stata la produzione di automobili FIAT (a onor del vero: di pessima qualità) e Lancia, la qual cosa ha incrementato la popolazione dei comuni circostanti (Termini Imerese, Villabate e Bagheria), attirando villici da ogni angolo della Sicilia occidentale, in cerca del posto fisso in fabbrica.
Al fine di fomentare tale afflusso, innegabilmente per motivi elettoralistici, i potenti signori del territorio (deputati regionali, nazionali e sindaci) hanno spinto forzosamente la Regione Siciliana a fungere da ufficiale pagatore e corruttore, nella misura in cui, camuffati da incentivi e altri sgravi fiscali, ha corrotto l’azienda torinese, da sempre in crisi per la scarsità delle vendite dei propri modelli, purché continuasse la produzione sulle rive dell’Imera.
Gli Agnelli, è noto, sono gran brutta gente, e da tanto ormai (sebbene con buoni matrimoni nobiliari si siano affrancati e innalzati al rango di nobili borghesi, come i loro omologhi americani, originariamente trafficanti di alcohol, i Kennedy): è noto uno scambio epistolare tra il Duce del Fascismo (Mussolini, insomma) e il Cavaliere Giovanni Agnelli, nel quale il secondo pietiva fondi pubblici (già un secolo fa!), minacciando il primo, e questo di rimando minacciava scioperi nelle fabbriche da parte del sindacato fascista. In varie occasioni Mussolini ebbe modo di lamentarsi con i suoi collaboratori delle insistenze dell’industriale torinese, riducendolo a un pietente incapace.
I decenni son trascorsi, ma lo stile Agnelli non è cambiato: fondi pubblici, a fronte di impieghi di amici e clientes dei vari potenti di turno: un circolo del vizio che ha funestato le casse pubbliche, contribuendo in grande misura al disavanzo nazionale.
Ebbene, a un certo punto della nostra storia arriva d’improvviso una crisi economica, e conseguentemente industriale, senza pari da quasi un secolo: si devono dismettere tutti i rami secchi e puntare sul tronco vivo.
L’illuminato nuovo signore di casa Agnelli, Sergio Marchionne, elabora una strategia molto concreta, al fine di superare l’imprenditoria statalista: pone fine alle clientele e punta sulla qualità e quantità della produzione. Ergo, lo stabilimento di Termini Imerese non è più necessario, in quanto gestito male, improduttivo e costoso, a favore di quelli polacco di Gdànsk (Danzica), dove con metà dello stipendio di un metalmeccanico siciliano, il suo omologo polacco produce un terzo in più.
Per quanto personalmente trovi ripugnante l’idea di sovvenzioni statali (leggasi, ad esempio, “incentivi per la rottamazione”) atti a finanziare altri sistemi economici (nell’esempio sopra citato, quello polacco), non posso negare che sia del tutto logico che una società privata tenda al profitto e razionalizzi i sistemi produttivi.
Una separazione amichevole tra Stato Italiano (o Regione Siciliana) e Agnelli è quanto di meglio ci si possa attendere ad oggi, nella speranza che il divorzio sia reso definitivo presto, vista anche la recente acquisizione di importanti mercati stranieri da parte della FIAT-Marchionne.