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Uno sguardo personale alla Politica

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Dinastie in picchiata

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Chi in questi giorni non si sta facendo matte risate nell’osservare le storie e storiacce di cui il primo ministro italiano, sua maestà Silvio I, si è andato a impelagare? Lo spettacolo a cui si assiste è paragonabile a un incidente d’auto sull’autostrada: passiamo accanto, inorridiamo eppure siamo curiosi di vedere un morto tra le lamiere, accusandolo verbalmente o mentalmente di irresponsabilità, essendo stato quegli troppo irresponsabile nel guidare ad alta velocità, sebbene non si abbia ben chiara la dinamica dell’incidente.

Non amo parlare dei fatti odierni, preferendo un tono più assoluto che non si soffermi sugli accadimenti giornalieri, ma che prenda in esame il lungo termine delle evoluzioni: eppure in questo caso, così pervasivo negli organi di stampa, così appassionante, come solo le novelle d’amore da pochi euro, sono stato anche io colpito dallo schianto, causato da motivi così futili, tanto quanto l’eco immenso che esso ha fatto risuonare intorno a sé.

La "triade" della FIAT: Sergio Marchionne, Luca Cordero e John Elkann.

La "triade" della FIAT: Sergio Marchionne, Luca Cordero e John Elkann.

Nonostante l’ostentata forma di repubblica laica e secolare, l’Italia è sempre stata una nazione attanagliata da rituali arcaici, quali il rispetto per il nome, la posizione o il lignaggio di un personaggio, al punto tale che a tutt’ora, settantanni dopo la dichiarazione della fine del sistema monarchico, duchi, principi, conti e baroni ancora tengono il proprio titolo in bella mostra e sono riveriti e ossequiati, ben lungi dal merito o dal contesto.
Le famiglie reali sono sempre state nell’immaginario dei popoli, senza limiti geografici o culturali (si pensi a cosa sia per gli Americani la dinastia Kennedy, ex contrabbandieri di alcohol negli anni del proibizionismo, che da decenni controlla i destini politici degli Stati Uniti), alla continua ricerca di una guida, di un principe dall’arme scintillante che conduca a vittorie e plachi le paure.

In assenza di una tale figura, l’Italia ha cercato nella nuova borghesia un’immago che quanto meno potesse avvicinarsi a tale concezione: per decenni la famiglia Agnelli ha dominato i cuori e le menti della nazione intera, aristocraticamente intoccabili e di gusti sopraffini, benché i natali non nobili, i quali controllavano politici, manager o semplici uomini e donne, dei quali si facevano dispensatori di fortune e disgrazie, a seconda dei capricci o degli interessi che essi rappresentavano.
Con tale potere economico e carismatico, per decenni gli italiani hanno finanziato, a mezzo di tasse o agevolazioni fiscali, gli intrallazzi più o meno leciti delle aziende familiari, spesso in affanno finanziario, le quali di converso hanno sempre mugugnato al momento di dover restituire parte di ciò che avevano ottenuto, sovente anzi penalizzando i loro stessi clientes e benefattori, delocalizzando la produzione dei propri prodotti in altre nazioni.
Mi sovviene alla memoria una lettera, ritrovata (o svelata) qualche anno fa, nella quale il Cavaliere Mussolini ebbe a lamentarsi del comportamento degli Agnelli, che dal regime fascista prendevano soldi e benevolenza (nel fermare proteste operaie del sindacato) e al contrario non facevano che chiedere; sprezzante, a un certo punto del testo, il Duce del Fascismo si lancia in un’invettiva e minacce di scatenare lo sciopero se tali richieste fossero continuate.
A quanto pare da ciò, gli Agnelli non furono una spina nel fianco dei nostri genitori, ma bensì anche dei nostri nonni.

Le alterne fortune, che negli anni, a dispetto dell’ingente mole di danaro pubblico ottenuto in concessione, hanno condotto le principali aziende della famiglia a perdere sotto quasi tutti i fronti nei quali queste competevano, condussero a un punto dato per il quale la maggiore di tali aziende (la FIAT) versasse in condizioni moribondesche, con lo spettro di una bancarotta imminente.
Sebbene l’arrivo di Sergio Marchionne  alla guida di tale azienda abbia costituito il salvataggio di essa (ed altre), ha anche definito l’inizio di un’inesorabile erosione del potere degli Agnelli nella gestione: Jaki (all’anagrafe John: il soprannome viene dallo stesso rifiutato in quanto segno di diminutio) Elkann infatti vede diminuire sotto i suoi piedi le quote azionarie della famiglia, acquisizione dopo acquisizione, nell’ammodernamento del sistema industriale, che spazza via le vecchie icone e le tritura sotto le macine della produzione.

Silvio Berlusconi, in un'immagine della sua giovinezza.

Silvio Berlusconi, in un'immagine della sua giovinezza.

Liquidati gli Agnelli, la nazione si è rivolta negli ultimi anni a un parvenu, un self-made man (come generosamente gli Americani definiscono tali figure), che ha costruito un impero tale da rivaleggiare e in alcuni momenti soppiantare quello della FIAT, dominatore di decenni passati.

Berlusconi, incoronato Silvio I di Arcore, piace anche di più, essendo di una cerchia più popolare, più vicina ai modi e la cultura della gente comune, quella che per anni ha guardato i suoi programmi televisivi, quella che ha comprato i suoi giornali e che lo ha votato per uno scranno in parlamento, come mai nessuno prima di lui (gli Agnelli avevano un seggio senatoriale riservato, ma assegnato dal re o dal presidente della repubblica di turno).
Ai più sembravano buffe eccentricità le sue superficialità (il simbolo simil-nobiliare del biscione ricamato nei giardini delle residenze e installato nelle cotte d’armi acquistate, le operazioni di chirurgia estetica, le ostentazioni delle amanti di dozzinale bellezza ovvero l’uso del titolo onorifico di “Cavaliere” quale schiatta di nobiltà), che oggi ritornano indietro come un colpo di frusta mal indirizzato.

Con un onerossisimo divorzio imminente, che verosimilmente farà venir fuori squallori ancora non noti della vita del Cavaliere (quelli noti hanno, nell’inconsapevolezza comune, abbassato il livello sociale generale), anche la dinastia reale dei Berlusconi sembra diretta verso la frantumazione: liti per l’eredità economica tra i figli naturali, quelli illegittimi (che prima o poi scopriranno i propri diritti), quella politica tra gli alleati che da tempo malsopportano tanta luce accecante proveniente dai 64 denti in bella mostra, e quella morale, ormai contesa solo da animali di cortile.

Si attende dunque di trovare un nuovo sovrano per quest’Italia dai cuori in frantumi.

Written by Antonello Provenzano

5 Maggio 2009 at 4:06 PM

Guerra di religione

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Il tema è caldo, e da qualche anno, quanto meno in occidente, sembra essere l’argomento primario della maggior parte delle discussioni politiche, sia a Destra come a Sinistra, talora con commistioni di posizioni e travalicamenti di schieramenti di sorta.

José Luis Zapatero: il grande moralizzatore che vorrebbe trasformare la Spagna in uno Stato Ateo

José Luis Zapatero: il grande moralizzatore che vorrebbe trasformare la Spagna in uno Stato Ateo

Attraversiamo infatti un momento della nostra storia moderna, a causa di congiunture storiche, politiche e fattuali, che riportano a tempi lontani e dimenticati, sicuramente nella “civile” Europa, che segnano nella guerra tra Cattolici e Anglicani in terra d’Albione l’ultimo ricordo di tale gravità: il radicalismo del “mondo Mussulmano”, che ha condotto al tragico 11 Settembre 2001, “data che rimarrà segnata nella storia col marchio d’infamia”, e la crisi economica, seguita alla delocalizzazione della produzione industriale (alla ricerca di un maggior risparmio nel processo concorrenziale di massa), aggravata dai mezzi finanziari creativi, risultati “tossici” e cancerosi per chi ne aveva fatto uso.

In questo scenario apocalittico e di disperazione, i più cercano rifugio nell’animismo religioso, chi cattolico, chi islamico, chi ancora ebraico, per ricordare solo ed esclusivamente la situazione in atto in Europa (si potrebbero ricordare i decennali scontri tra Hindu e Mussulmani in India e Pakista, ma non è il momento), radicalizzando uno scontro in corso da più di un millennio, talvolta  esplicitamente, talvolta in maniera sotterranea.
Ayman Al-Zawahiri durante il processo per l'omicidio di Sadat

Ayman Al-Zawahiri durante il processo per l'omicidio di Sadat

Come in ogni rissa di strada (chi, come me, ne ha tristi segni sul corpo può capirne le dinamiche), succede sempre che un terzo s’immetta nello scontro, spesso facendone le spese maggiori, nonostante le buone intenzioni: è proprio di quest’ultimo che voglio parlare in questa sede (a dispetto della lunga introduzione).

Nella tenzone religiosa riemersa di recente, grazie anche al radicalismo fomentato dal Team B (originato dalle tesi conservatrici ed evangeliche di Robert Kegan, progenitore dei moderni Neo-Con, quali RumsfeldWolfowitzLibbyPipes), nonché alle pressioni estremiste egiziane, antecedenti e seguenti l’uccisione di Sadat (organizzata da Al Zawahiri, sulla sporta delle tesi radicali di Sayyid Qutb), nonché la fondazione del primo Stato islamico fondamentalista, l’Iran di Komeini, si è introdotto un terzo combattente, con l’intenzione nobile di evitare un peggioramento della situazione, ma che al contrario ha infervorato entrambe le parti, le quali oggi incitano al fondamentalismo religioso, sia cristiano, che islamico.
La nuova dottrina ateistica emergente in Europa, che mira a imporre, quasi manu militari, a imporre la distanza da tutto ciò che sia espressione di religiosità, per non urtare nessuna delle due parti in causa, ha creato un nichilismo statalista diffuso e utopico, che ha condotto gli estremisti religiosi cristiani a gridare all’invasione islamica, vedendosi spogliati del primato sulle coscienze continentali, e quelli islamici, giunti in milioni negli ultimi decenni presso le nostre città (chiamati dalle sirene degli industriali alla ricerca di mano d’opera a basso costo, e spinti dalla misera condizione in cui vivevano nei rispettivi Paesi), al tentativo di tagliare le esili radici culturali che li legano alle loro famiglie, alla loro storia e al loro sentire.

Paul Wolfowitz, il falco dei Neo-Con che per decenni ha funto da ideologo in capo dei Neo-Con

Paul Wolfowitz, il falco dei Neo-Con che per decenni ha funto da ideologo in capo dei Neo-Con

Sebbene molti retoricamente ricordano l’emigrazione italiana in varie nazioni del mondo al principio del secolo scorso, adducendo ad esempio le miserrime condizioni di vita a cui essi furono obbligati dalle popolazioni ospitanti, ci si dimentica sempre (forse volutamente) di sottolineare come tali Paesi meta dei viaggi della speranza italici fossero anch’essi appartenenti a quell’alveo cultural-religioso europeo, che Inglesi, Spagnoli e Portoghesi avevano esportato con la forza nei secoli antecedenti (si ricordi l’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti d’America o l’Australia).

La nuova religione ateistica propagandata quale unica soluzione allo scontro in atto, quindi, si candida a essere l’inconsapevole detonatore di un conflitto ancora più ampio, che rischia di avere conseguenze drammatiche sulla vita di tutti (seppur già adesso parte di esse sono visibili: controlli estremi negli aereoporti, razzismo di massa nelle periferie, etc.). Sarebbe duopo in questa sede ricordare dell’era dei lumi, laddove gli uomini di scienza, in una furia iconoclasta e rivoluzionaria, portarono sul trono del mondo Napoleone Bonaparte: la cosa rese più radicali tutti i popoli europei che, fieri della propria religiosità e tradizioni, si lanciarono in milioni contro le sue armate, rendendo l’illuminato impero francese di breve durata ed esponendolo alla restaurazione antecedente alla presa del potere del tenente corso.

Il paradosso filosofico in cui incorro ogni volta che mi trovo a scrivere o parlare del tema religioso è quello dell’essere un ateo convinto, che difende il cattolicesimo: scevro da ogni considerazione di carattere teologico, bisogna non negare la fondamentale opera di controllo operata dalla Chiesa Cattolica negli ultimi secoli, che ha permesso una coesione umana forte e maggiormente consociativa di quella che il nichilismo moderno, tendente solo all’espansione economica, immemore e incurante del benessere morale, ancorché di quello fisico, del proprio popolo.

Compiamo il bene, nella convinzione di far del bene e lo facciamo tanto bene che arriviamo al punto di nuocere a causare il male.

Written by Antonello Provenzano

14 aprile 2009 at 2:13 PM

Esegesi del Travaglio

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Il giornalista (per sua definizione) e opinionista Marco Travaglio

Il giornalista (per sua definizione) e opinionista Marco Travaglio

Ero un ragazzino liceale quando per la prima volta sentii parlare di Marco Travaglio, ormai navigato e celeberrimo opinionista televisivoe giornalista: come quasi tutti, conobbi il suo nome, quindi, al tempo in cui scrisse il libro Il profumo dei soldi, denunciando malversazioni compiute dall’allora neo-Presidente del Consiglio dei Ministri (oggi si direbbe semplicemente Primo Ministro) Berlusconi.

Nonostante tanta fama (o infamia, secondo alcuni), ho iniziato a conoscerlo mediaticamente sin dalle sue prime apparizioni nelle trasmissioni televisive del compare Santoro: inizialmente, bisogna che lo ammetta, il mio fegato s’ingrossava e la bile tracimava al sentire il suo eloquio così puntuto, arrogante e pretenzioso, al di là delle mie idee politiche.
Il Travaglio infatti porta nel nome il destino della sua persona: risulta davvero arduo restare ad ascoltarlo attaccare la propria parte o la parte avversa senza immaginarlo come il ragazzino saccente delle medie, che alza sempre la mano, fa sempre la spia e non fa copiare i compagni. E forse lo stesso è rimasto a quel tempo d’infantili sentimenti, ove niente assume tonalità variegate, ma si tinge di bianco e nero e pochi altri colori forti.

Con il tempo, però, e con la maturazione intelletuale che purtroppo ha assalito anche me, ho potuto apprezzare la tecnica del personaggio, il quale ripercorre quella demagogica in voga nei regimi totalitari e puramente ideologici (laddove l’ideologia non è un male, in quanto fulcro del ragionamento morale e legislativo di un sistema, essa risulta infatti deleteria ove unica fonte di diritto e regolamentazione), spesso autori di barbarie inumane e antistoriche.
Rivolgersi alla massa, brandendo forconi e invocando all’uccisione del mostro è sempre stato alamente suggestivo e pienamente redditizzio nei contesti poveri culturalmente et esasperati (vien da pensare alle persecuzioni di Praga o alla Caccia alle streghe di Salem).

Con l’ausilio di un’elaborazione mentale che virtualizza l’applicazione delle regole e delle razionalizzazioni di Marco Travaglio, ho immaginato di tornare al tempo in cui Mussolini arringava la folla dagli spalti o dalle colonne de’ Il Popolo d’Italia, prima, e Hitler fomentava i putsch degli anarchici a Monaco e Berlino.
Per quanto ardito il paragone possa sembrare, mettendo a confronto Travaglio con due capi nazionalisti che hanno fatto (nel male più che nel bene) la storia europea recente, questa non è affatto una forzatura, dati i toni e le argomentazioni populistiche e giacobine portate dal personaggio ad ogni trasmissione.

Lo chaperon di Travaglio, Michele Santoro insieme al suo protetto

Lo chaperon di Travaglio, Michele Santoro insieme al suo protetto

La politica è particolarmente improponibile di recente, benché nella storia nazionale non si hanno ricordi di un periodo in cui questa non lo sia stata: le sparate di Marco Travaglio su di essa, che vorrebbe ridicolizzare, sbeffeggiare e depotenziare, si prestano quindi più alla speculazione massimalista, che è il cuore delle trasmissioni di Santoro, maestro di casa del sensazionalismo politico ben retribuito (il quale nel momento di agire, ha preferito vendere il proprio seggio parlamentare europeo per il danaro della televisione, confrmando di essere solo un prezzolato ammaestratore di leoni senza denti).

 

Per quanto Popper ne ebbe a dir male, la televisione nella sua opera di divulgazione ha contribuito a far sì che un personaggio al pari di Travaglio potesse in alcun modo acquisire alcun potere reale, appalesando i difetti della persona, arrogante, supponente e saccente, che ancora traspira quel malodore di frustrazione e ambizione mai realizzata. Probabilmente, se il buon Adolfo Hitler fosse stato ogni settimana in televisione con qualche milione di persone ad ammirare i suoi sproloqui insensati, con quel filtro penetrate che la scatola parlante applica a ogni parlatore che contiene, la Germania avrebbe constatato come quell’ometto frustrato e arrabbiato fosse solo un venditore di facili ideali, così come il protagonista dell’articolo odierno.

Ho fatto mente locale alle volte per  ricondurre a un personaggio cinematografico il buon Travaglio, ma non sono riuscito a definirlo con nessuno di primo piano: Sibilla l’Indovina del film Network (di Sydney Lumet, in Italia tradotto in “Quarto Potere”) è ciò che più si avvicina alla caratterizzazione del personaggio.
(Nota per chi no conoscesse il film suddetto: Sibilla L’Indovina è un personaggio della storia praticamente inesistente, la quale viene nominata, ma mai ascoltata, quale esperta di giustizia nel contenitore televisivo del predicatore pazzo Howard Beal).

Written by Antonello Provenzano

5 marzo 2009 at 9:54 PM

Ballando sulle macerie

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Momenti di vendita furiosa alla borsa di New York

Momenti di vendita furiosa alla borsa di New York

Quando un terremoto squassa e distrugge una città o un centro abitato, uccide gente, devasta abitazioni e lascia strade e servizi non funzionanti. L’istinto primario di ognuno colpito da tragedie come queste è quello di piangere, disperarsi e quantificare ciò che si è perso; in quella gente abituata alle fatiche e alle tragedie quotidiane della vita, il secondo istinto è di rimboccarsi le maniche e ricostruire con impegno ciò che si è perso, aiutandosi l’un l’altro tra vicini a turno.
Grazie questo spirito di collaborazione e  civicità, sulle macerie che ricoprivano la terra sorgono di nuovo le case che una volta giacevano distrutte, i prati una volta pieni di ruderi ritornano a rifiorire e la vita dura di quel tempo ridiventa di nuovo gioiosa e serena.

Stiamo vivendo tempi duri e le macerie ci circondano tutto intorno: banche falliscono, aziende chiudono, le fabbriche non assumono o nel peggiore dei casi licenziano gente. Le prospettive del nostro paese e di molti altri, un tempo ricchi e prosperi, sono cupe e desolanti: non vediamo un futuro chiaro per noi o per i nostri cari, cerchiamo di risparmiare su tutto e tutti i ninnoli e le belle cose che una volta arredavamo le nostre case o riempivano le nostre tasche ormai sono lussi, che guardiamo sognanti attraverso la vetrina di un negozio.
Ebbene, è la fine di un’epoca di gioia e di serenità, durata a lungo e alimentata da una pressoché assenza di guerre e conflitti come mai nella storia dell’occidente [politico] si era mai verificata. 

Ogni giorno leggiamo le notizie drammatiche su questa situazione tragica, o vediamo alla televisione i servizi del telegiornale che descrivono come una famiglia si privi del necessario, o ancora di gente che perde il lavoro per il fallimento della società dalla quale erano stipendiati. Eppure, nonostante tutto questo disastro, riesco a sorprendermi nel sentire il grido di dolore dei cineasti italiani, che piangono lacrime di sangue adesso che i cordoni della borsa si sono stretti e loro non hanno più i soldi.

Le macerie sono tutte intorno, ma loro vorrebbero ancora ballare e cantare, come hanno fatto per anni e anni: allegoria di questo Paese, che ha fatto bagordi e feste, incurante di come queste venivano pagati e fingendo di non sapere ancora adesso.
Mi piacerebbe sapere in quanti sono mai andati a vedere uno di quei film finanziati pubblicamente, costati milioni di euro, ignorati da critica e pubblico, nonché dai giornali, se non quando oggetto de’ilarità, nel raccontare dei 120 spettatori paganti per “Il Consiglio d’Eggitto”: beh, io devo ammettere di averlo fatto.

Presidente, ci rivolgiamo a Lei che ha il potere, a Lei che può: ci dia i soldi!

Letta fuori dal contesto sembrerebbe quasi di sentire la richiesta di riscatto fatta nei confronti di qualcuno che ha subito il sequestro di un famigliare, o un’estorsione. Invece è quanto Gabriele Lavia ha quasi urlato all’indirizzo del Presidente della Repubblica Napolitano durante l’assegnazione del premio intitolato a Vittorio De Sica.

Gabriele Lavia, attore e regista milanese che lamenta la mancanza dei fondi per il cinema italiano

Gabriele Lavia, attore e regista milanese che lamenta la mancanza dei fondi per il cinema italiano

Per quanto eretiche le mie parole possano sembrare a chi mi sta leggendo in questo momento, il cinema, come il teatro e gli spettacoli in genere, non sono di per sè stessi un bene irrinunciabile di una nazione, ancorché importanti e segno di avanzamento culturale. È difficile infatti motivare la necessità di continuare a gettare soldi in un pozzo nero, come [purtroppo] il cinema e il mondo culturale italiano sembra essere diventato, quantomeno finanziariamente.
Nessuno va a vedere film costati ingentissime somme di danaro pubblico, come detto in precedenza: una quercia che cade in una foresta senza che nessuno lo senta cadere.

In periodi come questi, drammatici per taluni versi, è davvero così importante sostenere con soldi pubblici i mutui delle case milionarie comprate da registi e attori, i quali producono ben poco che sia suscettibile di valore artistico, tantomeno apprezzato dal pubblico?
Diciamoci la verità senza esagerare troppo nei toni, come da Italiani ci piace fare: l’industria cinematografica italiana serve solo a chi produce e non da nulla a chi consuma, pesando sulle spalle di tutti, come ennesima istituzione iniqua di questo Paese.

È duro per tutti constatare quando un’epoca ha termine e il primo riflesso risulta sempre essere il diniego di questa fine: vorremmo tutti continuare a ballare e cantare, come nulla fosse successo. Purtroppo le macerie sono tutte intorno a noi e devastano i prati e ci rubano il tetto che una volta ci riparava dalle intemperie.
Quel che possiamo fare adesso è sopportare la grama miseria che ci circonda, farci forza e tutti insieme aiutarci l’un l’altro per ricostruire ciò che è andato perso, perché un giorno i prati siano nuovamente rigogliosi e floridi, le nostre case ricostituite e le nostre vite nuovamente gioiose come una volta.
Non è più il tempo dei particolarismi e delle distinzioni di classe e di razza [politica], non è il tempo di pretendere ciò che si è avuto ieri e senza pudore non apprezzato a sufficienza: questo è il tempo di riscoprire il reale senso delle cose.

Written by Antonello Provenzano

15 novembre 2008 at 10:08 am

15 minuti

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Andy Wahrol - La famosa frase che apriva la trasmissione su MTV

Andy Wahrol - La famosa frase che apriva la trasmissione su MTV

Prendo a prestito un titolo che Andrew “Andy” Wahrol, da par suo genio, ebbe a ideare per descrivere la futura, per il suo tempo, situazione nella quale ognuno di noi avrebbe avuto “15 minuti di fama”.
Il riferimento del grande artista, che considero insieme a Roy Lichtenstein il più grande artista del secolo scorso (non me ne vogliano i dissacranti Picasso, Dufy o Duschamp), però non rientra nel senso che tale espressione ha assunto per noi oggi.

Sebbene al tempo della nascita della televisione commerciale, scevra di imposizioni governative e censure, la realtà di tutti i giorni cominciava ad essere messa in scena, scimmiottando gli atteggiamenti umani, essa si risolveva a specchio della civiltà contemporanea, magari piena di edulcorazioni e arrotondamenti delle spigolatura della dura vita moderna.
Ad oggi tale concetto ha smesso di essere vero: è cosa ben nota e forse con queste righe rischio di annoiare qualcuno e perdere del tempo a pubblicarle.

Oggigiorno infatti la presenza costante del video, prima, o del social network poi (si pensi a Facebook, MySpace, Bebo, Hi5, etc.) fa sì che la nostra vita divenga pubblica e conosciuta da tutti, sotto la molteplicità di aspetti impensati fino a poco tempo prima e fuori da ogni controllo per lo più.
Nonostante la ricerca della privacy da parte di taluni, ormai sembra utopico potere immaginare l’esistenza di qualcuno senza concepirne a lato una presenza anche mediatica: alle volte provo tenerezza per quegli amici che disperatamente si affannano a fare in modo di non comparire di qui o di là da internet al semplice video amatoriale, data la costante presenza di macchine fotografiche (per lo più presenti nei cellulari ormai: che non si perda mai nemmeno un’occasione per riprendere un avvenimento a futura memoria!), videocamere digitali supertascabili e quant’altro, che ci immortalano per poi trasferirci sugli album online di Facebook.

Gabriele Paolini - Durante una invasione televisiva al TG2

Gabriele Paolini - Durante una invasione televisiva al TG2

Vi sono poi coloro i quali, e questa è la categoria più disgraziata del nostro tempo, si sentono definiti solo in funzione della loro apparizione in video nazionale, anche solo di sfuggita; anche solo per farsi considerare da tutti gli spettatori dei penosi esempi di essere umani (date le movenze primatiche che mettono in scena per farsi notare).
Vi sono molti contendenti il trono di questo ambito regno animale: restando in territorio italiano, si va dal Paolini al Cavallo Pazzo, giungendo sino a più miseri astanti dietro l’inviato speciale di turno che si vede disturbato e infastidito, poiché non sa se da un momento all’altro un distinto signore alle sue spalle solleverà un dito medio, mortificando il suo showinismo, visto il collegamento tagliato subito dopo.

E ancora vi sono le telecamere di decine di telegiornali, proliferati in maniera incontrollata, che oscenamente presentano i particolari di un omicidio, di un’aggressione o di un fatto di cronaca (arresti, linciaggi, incidenti, etc.), lanciandosi come iene su ogni carcassa, alimentando curiosa morbosità alla ricerca di un punto in più di share e una vittoria giornaliera che l’indomani sarà già vana.

Ciodetto, non voglio scadere nella retorica revanscista di coloro i quali sostengono che “una volta si stava meglio”, o che “la società moderna ha dimenticato i veri valori di un tempo”, ovvero ancora che “la televisione commerciale ha rovinato il nostro modo di vivere”: sono tutte affermazioni sentite più volte, da più fonti di più direzioni politico-culturali differenti, che mi sento di sottoscrivere personalmente, ma che non sono né giustificative, né risolutive della situazione attuale. In verità, come in ogni società degenerata nella storia, seguendo il modello erodoteo, una rivoluzione sociale spontanea riequilibra la situazione… fino alla prossima degenrazione quantomeno…

Written by Antonello Provenzano

14 ottobre 2008 at 11:41 am

Pubblicato su generale, società

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